Michela Murgia al Mart: cultura contro il femminicidio

Il dislivello di potere tra uomo e donna

L’Adige 2 dicembre 2014

di Laura Galassi

Dietro il pugno in faccia alla fidanzata c’è un mondo che vede la donna in una posizione di sottomissione; ci sono spot pubblicitari in cui il corpo femminile è metafora della merce, ci sono cartelloni che mettono in scena stupri patinati, ci sono immagini di ragazze giovani e bellissime sempre disponibili.

Michela Murgia, scrittrice sarda premio Campiello 2010, è convinta che sia la nostra cultura a generare il femminicidio, inteso come annichilimento della donna. È il dislivello di potere tra maschio e femmina, perpetrato in migliaia di messaggi televisivi, filmici e giornalistici, a mettere mogli, compagne, figlie e sorelle in una posizione di sottomissione dalla quale è difficile risollevarsi.

Murgia martedì scorso era al Mart di Rovereto in veste di attivista dei diritti di genere, nella giornata dedicata alla violenza contro le donne. Ha visitato la mostra Falenablu, curata da Valentina Musmeci, frutto del lavoro di otto donne vittime di aggressioni dentro le mura domestiche.

Non è facile, ha spiegato l’autrice di “Accabadora” presentata da Alexander Schuster, convincere le persone che il male risiede nelle piccole cose, nella martellante proiezione di stereotipi mortificanti. “Sono anche le campagne pubblicitarie, quelle dei grandi marchi, di Bmw e di Calvin Klein, quelle che arrivano agli uomini ricchi, a far sì che le donne possano credere che la sudditanza è normale”, ha esordito la letterata sarda davanti a una platea solo femminile.

Sullo schermo dell’auditorium ha fatto scorrere alcune immagini incriminate: donne mercificate, “gambe, seni e bocche trasformati in oggetti sessuali, segretarie avvenenti pronte a sollevarsi la gonna per compiacere il capo” e, dulcis in fundo, una ragazza dall’occhio nero, con una scritta che dice più o meno così: “Si può essere ladylike anche dopo essere state picchiate”. E via di bambine vestite di rosa che si divertono con le cucine-giocattolo un indottrinamento di genere trasmesso fin dai primi anni di età, un modo immediato per spiegare alle future partner quale è il loro posto nell’universo.

Perfino le campagne pensate per aiutare le donne a denunciare le violenze, secondo Murgia, non funzionano come si deve. Se il destinatario del messaggio è una persona che ogni mattina di sveglia con un ematoma sul viso, non ha senso riempire la città di cartelloni con la stessa identica immagine. “Questa è un’estetica della violenza che, alla fine, la legittima. È la proiezione del sé annichilito, l’ennesimo esempio di donna come soggetto passivo; ed è qui che si innesta il meccanismo paternalistico del soggetto fragile, bisognoso di aiuto”, ha sottolineato la scrittrice sarda.

Mentre aspettano il tram la mattina, mentre apparecchiano la tavola o sono dalla parrucchiera, alle mogli maltrattate farebbe meglio confrontarsi con la storia di donne potenti, di donne che ce l’hanno fatta a emanciparsi. Come Samantha Cristoforetti, l’astronauta scienziata che ora si trova nello spazio, o come le ragazze che ballano nel video “One billion rising”.

“Ogni giorno le vittime di violenza si sentono ripetere frasi del tipo “Tu non vali niente”. Non hanno bisogno di imbattersi in altri occhi neri e sguardi abbattuti. Questo genere di comunicazione può essere servito in passato per sollevare il problema del femminicidio, ma ora bisogna fare un passo ulteriore”, è l’analisi di Murgia, che prima della conferenza si è intrattenuta con un buon esempio di donna emancipata, la conterranea direttrice del Mart ormai a fine mandato, Cristiana Collu.